Il buon samaritano Luca 10, 25-37 – prima parte
Il corpo causale
Il buon samaritano, attraverso una disamina attenta del testo, coglie la straordinaria ricchezza di allusioni e di allegorie che la parabola ci offre.
E così, dei tre “combattenti” reclutati da Gesù per portare aiuto al viandante assalito dai predoni, uno, il sacerdote, che avrebbe dovuto essere il comandante, si rivela essere un disertore, l’altro, il levita, invece di un soldato si comporta da funzionario, solo il Samaritano, non facente parte di un esercito regolare, ed anzi considerato un reietto, entra nella scena e vi partecipa attivamente: ebbe compassione. Tutta la parabola ruota quindi intorno al tema della COMPASSIONE. Essa ne è il fulcro e la ragione. L’etimo della parola già ne lascia intendere l’intimo significato: cum patior, essere con l’altro nel soffrire.
Mentre la Pietà, che spesso erroneamente consideriamo come sinonimo, rivela una sorta di distacco compiaciuto e fine a se stesso, la compassione indica un coinvolgimento assoluto nella sofferenza dell’altro sino “a mettersi nei suoi panni”. Addirittura il termine buddista corrispondente, jihi, si traduce come amore universale per il genere umano, e si riferisce quindi ad una condizione di illuminazione che ha superato il livello di emotività per raggiungere un sentire più grande. Infatti il “patire con l’altro” non significa, si badi bene, sovrapporsi emotivamente alla sofferenza altrui accentuandone i toni, bensì riconoscere quella sofferenza come propria di ogni essere umano, mantenendo lucidità e chiarezza d’intenti, in modo da poter offrire il meglio che la situazione richiede per il destinatario del nostro aiuto.
Proprio quello che il Samaritano opera per soccorrere il malcapitato viandante. Gli si fa vicino e ne fascia le ferite, versandovi olio e vino. La cura e l’attenzione da lui fornite sono precedute da un atto di “vicinanza”, inteso sia in senso fisico che metaforico, in quanto la vicinanza è la condizione richiesta perché l’amore possa operare, la base di partenza di tutte le operazioni di soccorso.
Senza di essa l’aiuto sarebbe freddo e velleitario, e le ferite, per quanto trattate, rimarrebbero aperte. Il termine “locanda – albergo” è la traduzione in italiano dal greco Pandokeion, che vuol dire “accoglienza universale”. Il suo utilizzo in questo contesto, peraltro unico in tutto il Nuovo Testamento, non può essere solo coreografico o casuale: è molto probabile che l’evangelista volesse alludere alla funzione che la Chiesa nascente doveva svolgere a quell’epoca. Ma l’aiuto del Samaritano non si ferma qui: il bisognoso non viene depositato in albergo come un pacco qualsiasi, a sgravio della coscienza del soccorritore. Egli si prende cura di lui personalmente, cioè se ne fa carico, si assume le sue responsabilità, trasmette all’albergatore con il suo esempio e la sua dedizione le virtù della carità e della compassione.
Non è difficile vedere adombrata nella figura dell’albergatore quella del “discepolo” che impara l’arte di amare dal Maestro, e che continua la sua opera anche il giorno dopo, quando egli sarà partito. Ma il giorno dopo è anche un altro tempo in cui, dopo avere appreso l’arte di curare i mali del fisico e dell’anima, nulla sarà più come prima, perché si saranno creati i presupposti dell’avvento del Regno dei Cieli sulla Terra.
L’aiuto fornito dal Samaritano si manifesta perfino nei due denari lasciati all’albergatore, espressione non solo delle sue possibilità umane e materiali, ma anche di un riconoscimento concreto delle esigenze pratiche che richiede un prendersi cura delle persone e in senso più lato della Vita, la quale peraltro, come viene lasciato intendere, può necessitare molto più che di due denari: il resto ci sarà restituito al suo ritorno, perché quello che alla Vita si dà, la Vita indefettibilmente ci ritorna.
Ed eccoci giunti al sorprendente finale, in cui Gesù rovescia l’iniziale domanda dello scriba: Chi è il mio prossimo?, cambiandole direzione. Il Maestro non ha inteso rivolgere una predica al suo interlocutore, facendogli rilevare come la sua domanda fosse mal posta, ma, come nei migliori intenti di una parabola, ha narrato una storia il cui significato balza agli occhi così evidente, che adesso è Lui stesso a cavare la giusta risposta allo scriba con la sua domanda finale: Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? La domanda dello scriba era diretta a conoscere l’OGGETTO dell’amore, quella di Gesù il SOGGETTO dell’amore!
Perché mentre non si può discriminare l’oggetto del nostro amore, facendolo dipendere dalla diversa natura o condizione dell’altro, è invece fondamentale sapere da chi e da dove parte l’amore e quale sia la natura del nostro amore. Gesù opera quindi un rivoluzionario trasferimento dell’idea di “prossimo” dall’altro a noi. E’ l’universale legge dell’Amore insegnataci attraverso un semplice apologo: un “cristiano” è tale solo se ama sempre, non se sceglie l’oggetto del suo amore, distinguendo pretestuosamente fra caso e caso. Quindi l’amore al prossimo non poggia sul destinatario della nostra benevolenza, bensì sul soggetto che lo dirige.
Ma le sorprese non sono ancora finite, perché lo scriba, che evidentemente ha capito bene il messaggio della storiella, non risponde alla domanda postagli: il “terzo”, oppure “il samaritano”, bensì: colui che gli ha usato misericordia. Non ha importanza infatti, ai fini dell’identificazione dell’amore del prossimo, lo status sociale di chi presta aiuto o il suo ordine di comparsa sulla scena, bensì la qualità dell’intervento, definita misericordiosa.
Perché la MISERICORDIA – cioè avere cuore per la miseria – è l’essenza stessa dell’amore verso il prossimo. Senza di essa il concetto di amore, come ben dice Eraldo Tognocchi, “si spende in inutili e ingannevoli slanci, non cura i mali veri o dove realmente si trovano, porta aiuti a chi non ne ha bisogno, e interviene solo quando il caso diventa sentimentalmente gradevole e gratificante”. E siccome la miseria, materiale o morale che sia, non è appannaggio di singoli individui, ma è una condizione che riguarda la natura umana in generale, ecco che ancora una volta viene mirabilmente dimostrato che la compassione e la misericordia non possono rivolgersi a soggetti scelti in base ad opinabili criteri, ma devono indirizzarsi a tutto il genere umano.
Allora sì che l’amore potrà finalmente mettersi in cammino come il Samaritano e mettere in pratica il precetto di Gesù: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”. Sorpresi che una parabola così apparentemente semplice nei suoi tratti descrittivi e nel suo messaggio possa invece rivelarsi ad una attenta disamina una miniera di significati e di allegorie, ricchissima di sfumature e di allusioni, un autentico viaggio guidato nel pianeta Amore? Meditate gente, meditate!
Per leggere la prima parte di questo articolo vi rimandiamo al link: https://www.yogavitaesalute.it/il-buon-samaritano-luca-10-25-37-prima-parte/
Giorgio Minardo
Fonti e bibliografia: Eraldo Tognocchi – Un viaggio nell’amore, Cittadella Editrice