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I fondamenti dello yoga
Il termine Yoga, in sanscrito, vuol dire aggiogare, unire. Il più antico testo di Yoga conosciuto è la raccolta di 195 istruzioni (Yoga Sutra). Secondo la tradizione, questi luminosi aforismi sono stati scritti da Patanjali in un periodo avvolto dal mistero.
Il termine Yoga, in sanscrito, vuol dire aggiogare, unire. Se ne rileva traccia per la prima volta nei Veda e per la precisione nel Rigveda con il significato di imbrigliare. Nel tempo, la parola “yoga” ha assunto un valore sempre più specifico e tecnico, legato all’ascesi e alla meditazione. Viene usata anche dai Buddisti e dai Giainisti per indicare un processo di trasformazione della coscienza. Alla luce dell’Antica Saggezza, lo Yoga potrebbe essere definito un metodo pratico per investigare la realtà.
Il più antico testo di Yoga è la raccolta di 195 istruzioni (Yoga Sutra). Secondo la tradizione, l’autore è Patanjali, una figura leggendaria che si perde nei miti indiani. Questi luminosi aforismi sono stati scritti in un periodo avvolto dal mistero. Con molta approssimazione, la scienza ufficiale tende a far risalire l’opera all’alto medioevo mentre studiosi di alcune scuole di Yoga riportano indietro le lancette al IV sec a.C.
Molto probabilmente, il Raja Yoga rappresenta la codificazione di una serie di istruzioni sullo Yoga elaborate in accordo con l’esperienza maturata. Forse in quel periodo in cui sono stati scritti gli aforismi qualcosa era cambiato rispetto al passato. Il clima psicologico che aveva ispirato i Veda e le Upanishad antiche, era venuto meno. Non era più possibile dialogare direttamente con le forze della vita, per mezzo del sacrificio, come insegnavano i rituali vedici.
Rimaneva però, inalterata la tensione spirituale verso la liberazione individuale dal ciclo delle rinascite e la ricerca dell’identificazione con l’Assoluto. L’essere umano in quel tempo di maggior degradazione rispetto al periodo vedico, iniziò a cercare la liberazione dall’afflizione (klesa) attraverso uno sforzo interiore d’integrazione delle energie psichiche che si fondasse sulla purificazione. Nella tradizione indiana quest’attitudine viene definita tapas.
L’insegnamento del Buddha vissuto nel VI sec. a.C., contribuì nei secoli successivi a far cadere quei rami secchi del pensiero indiano depauperati dai rituali meccanici che soffocavano la vitalità del vero ricercatore. L’avvento del Buddismo e del Giainismo, considerati eterodossi dalla casta sacerdotale, stimolarono i brahmani a riconoscere delle scuole ortodosse (darsana) che potessero accogliere la conoscenza vedica e svilupparla secondo le nuove esigenze logico-critiche.
In quell’epoca, in India come in altre zone del mondo, furono gettate le basi per la costruzione di un pensiero adeguato alle nuove necessità ed atto a sostenere la pesante eredità del passato. Nel periodo che va dal VI sec. a.C. al IV sec. d.C., sei scuole diventarono un sistema di riferimento per investigare la vita secondo varie visioni apparentemente diverse tra di loro. Invece i darsana, rappresentano sei punti di vista sulla realtà non in conflitto, in quanto fondati sull’autorità dei Veda. Tra le sei scuole lo Yoga di Patanjali, è l’ unico che soddisfa e integra completamente quella esigenza di realizzazione caratteristica del pensiero orientale che lo rende la pietra d’angolo adatta su cui costruire l’evoluzione umana.
Nello Yoga classico, la pratica meditativa è la disciplina necessaria per aggiogare la natura psichica in modo da liberare la luce entro stante ed identificarsi così, con il Sé superiore. Lo Yoga darsana indica la realizzazione nella sospensione delle modificazioni della mente (chitta vritti). Patanjali in maniera scientifica descrive come disattivare, trasmutare e bruciare quegli ostacoli (samskara), presenti nella natura psichica, che ci impediscono di sperimentare l’unione con noi stessi (samadhi).
Inoltre, ci spiega come interrompere il processo d’identificazione con il divenire degli strati superficiali della vita (prakriti) praticando gli otto stadi (Asthanga) dello Yoga. Tutto ciò conduce, in ultima analisi, lo Yogi a vivere lo stato di Unità autosufficiente, isolata, fondata sulla sua Essenza (kaivalya) e per questo unita con la Vita. Secondo Alice Bailey, i primi cinque stadi dell’Asthanga Yoga descrivono il modo di affrancarsi dai sensi, mentre gli ultimi tre costituiscono il cuore del Raja Yoga. Quando praticati all’unisono, realizzano la disciplina della meditazione (Samyama) che permette di riconoscere lo Spirito dalla materia.
Luca Tomberli